Lo spzio di riflessione che vorrei aprire per inaugurare questa rubrica ha a che fare metaforicamente con il senso che può avere interessarsi di psicologia. Nel comprendere appieno ciò che accade ad una persona nelle più disparate circostanze della vita infatti è necessario spostare l’accento da quello che oggettivamente accade fuori dall’individuo a quello che gli accade dentro. Sembrano discorsi astratti invece il cambiamento di prospettiva è notevole.
Facciamo un esempio. Capita di sentire racconti di genitori e insegnanti disperati perché un bimbo ha difficoltà a scuola. Magari si distrae spesso in classe, discute con i compagni, oppure non fa i compiti a casa o risulta fastidioso perché non rispetta le regole e rende quindi difficile agli insegnanti svolgere il lavoro in classe; questi sono i fatti che oggettivamente è possibile osservare. Il bimbo allora ai nostri occhi diventa svogliato, maleducato, sfaticato, difficile da gestire. L’adulto rimane convinto che questo suo atteggiamento gli precluderà la possibilità di fare una buona esperienza a scuola ovvero la possibilità di portare dentro di se i vantaggi che derivano dalle abilitá che il percorso scolastico può alimentare e che possono essere utili nella vita adulta (rispettare le regole, saper convivere con gli altri, imparare a leggere, scrivere correttamente, imparate a riflettere sulle cose). Quando un adulto si confronta con bambini che hanno problemi scolastici di frequente l’istinto è quello di collocarsi in una dimensione in cui si giudica il bimbo come mancante di qualcosa, alle volte come volontariamente deciso a non fare ciò che invece può e deve . Il rischio spesso è quello di insistere facendogli sempre le stesse richieste: “Non alzarti. Non si fa. Studia. Non chiacchierare. La matematica è importante. Fai i compiti.” Se ci riflettiamo però in questo modo continuiamo a chiedere al bambino una cosa che, per chissà quale motivo, lui non sa tirare fuori da se stesso come invece riescono a fare gli altri. In questo caso l’attenzione, l’accento quindi, è spostato su come si sente un adulto che si confronta con un bambino. Lo si giudica in reazione alla frustrazione di non vederlo stare al mondo per come noi vorremmo o ci aspettavamo che avrebbe fatto.
Una icona dell’immaginario comune che riporta alla mente il “personaggio” del bimbo svogliato è Pinocchio. Riflettendoci, in fondo, questo povero ciocco di legno ritrovatosi da un momento all’altro ad essere bambino come poteva apprezzare e star bene nei panni di uno scolaro senza aver prima giocato, sperimentato il mondo, il suo essere amato da Geppetto e dalla Fata Turchina senza prima aver fatto il suo bel pezzo di strada con alle spalle un contesto famigliare sereno e affettivamente appagante? Come poteva dare ascolto al Grillo Parlante se prima non aveva fatto altre buone esperienze di relazioni in cui le regole avevano un senso che lui aveva potuto far proprio? Se anche per Pinocchio qualcuno si fosse preso la briga di spostare l’accento dalla ramanzina ad una riflessione più “psicologica” forse il povero Grillo si sarebbe potuto salvare!
Proviamo allora a spostare l’attenzione ponendoci delle domande diverse. Perché un bimbo non riesce a stare attento durante le lezioni? Perché è irrequieto? Possibile sia proprio complicato imparare che non si corre in classe? Cosa gli impedisce di studiare? Che cosa succede nella mente di quel bambino quando sta a scuola?
Il fatto che tutti si siano trovati a fare esperienza del contesto scolastico essendone usciti più o meno indenni spesso ci porta a sottovalutare quanto sia articolata l’esperienza che si fa quando si è a scuola, ma la psicologia ci può aiutare in questo senso. Parliamo di un contesto in cui si sperimentano le regole, si hanno rapporti con gli insegnati che essendo adulti ed estranei rappresentano la prima vera occasione del bambino per confrontarsi con il mondo esterno, si sperimenta la condivisione, il confronto e lo scontro con i compagni, si sperimenta la gratificazione, la frustrazione e la competizione in relazione al voto- alle volte vissuto come un vero e proprio giudizio-, si passa dal gioco libero a momenti di lavoro più strutturato, anche l’ambiente fisico cambia arricchendosi di sedie, tavoli, armadi, corridoi enormi. Se per caratteristiche proprie, insegnamenti famigliari o criticità nell’ambiente scolastico uno di questi elementi pesa più del dovuto nell’esperienza che fa il bambino, si possono creare i presupposti di un disagio che si manifesta nei modi più disparati: con l’irrequietezza, con la svogliatezza, con l’oppositivitá o con la passività più totale.
Ma facciamo un passettino oltre, quando leggendo un bimbo inverte le lettere delle parole lo fa perché si è esercitato poco o perché la sua mente legge quegli stimoli in modo diverso? E quando un bimbo ha difficoltà a comprendere appieno quello che legge è meno sveglio degli altri o dobbiamo pensare che il metodo che utilizza non è adeguato alle sue capacità di apprendimento? Ancora, se un bimbo ha difficoltà a comprendere che dopo il sette viene l’otto eppure ci fa domande intelligentissime su come si costruiscono i motori, come dobbiamo spiegarcelo?
Quando si esplora il vissuto interno di un bimbo rispetto al suo essere alunno come vedete si aprono diversi scenari, tutti meritevoli di una comprensione specifica e alcuni addirittura portatori di vissuti che necessitano di un intervento specialistico. Da diverso tempo infatti sono state individuate delle circostanze in cui le difficoltà nello studio possono derivare da un vero e proprio disturbo dell’apprendimento; questi ultimi, per loro stessa definizione, descrivono una condizione clinica in cui l’intelligenza del bambino è più che adeguata ma non riesce a rispondere ai metodi che con gli altri bimbi sono sufficienti ad ottenere dei buoni risultati scolastici. In questi casi allora appare fondamentale la possibilità di intervenire per comprendere bene come il bimbo impiega le proprie energie psichiche e per fornire strategie alternative nello studio. Un bimbo dislessico per esempio può studiare bene la storia se a leggere il libro è il suo lettore automatico, o può imparare a comprendere un testo con una metodologia di studio pensata ad hoc e può affrontare un compito in classe di matematica usando la calcolatrice se la discalculia è il problema. Queste sono solo alcune delle possibilità e sono frutto di un percorso di definizione del problema e di intervento che richiede l’impegno di professionisti del settore, ma la riflessione mi sembrava necessaria per mostrare quante nuove prospettive si aprono se spostiamo l’accento, come quando per errore si legge “àncora” piuttosto che “ancóra”.
Tutte queste riflessioni risultano di vitale importanza se consideriamo che i rischi di una cattiva esperienza o di un abbandono precoce del contesto scolastico risultano notevoli. Si spazia dalla definizione di una identità distorta perché si pensa di non essere capaci, a delle vere e proprie inibizioni di tutte le attività meno pratiche, forti vissuti di competizione da cui si esce perdenti con i compagni e i fratelli che riescono dove loro mancano e infine una cattiva esperienza con l’adulto, maestro e genitore, che non viene più vissuto come un punto di riferimento protettivo. Bisogna assolutamente imparare dove va messo l’accento.
Articolo pubblicato su Lo sguardo sui cinque reali siti, maggio 2015, anno XIII n.3 e luglio-agosto 2015, anno XIII, n.5