Sempre più spesso siamo raggiunti da notizie di cronaca che sorprendono, sconvolgono. Ci sono ormai noti i nomi del piccolo Loris, Yara Gambirasio, Sara Scazzi, Chiara Poggi, Samuele. I fatti atroci, che i media sembra abbiano piacere ad affrontare con un ripetersi ossessivo di immagini e dettagli, lasciano gli spettatori attoniti davanti a squarci di crudeltà umana. Parliamo di atti violenti, epiloghi drammatici di situazioni al di sopra di ogni sospetto o alle volte il semplice completamento di morti annunciate. La cronaca nera diventa cronaca da tutti i giorni, prêt-à-porter. I fatti non vengono più solo raccontati, ma emerge forte la necessità di dibattere, ciascuno con le proprie competenze criminologiche, per alcuni effettive e per altri conquistate sul campo.
Non ci sconvolgiamo più dei colpi di scena durante le indagini, siamo tutti alla ricerca di colpevoli, alibi, armi del delitto e moventi, sempre più smaliziati nell’esprimere pareri in merito, ci agganciamo e sganciamo idealmente anche noi “spettatori” dalle celle telefoniche all’ora del delitto, leggiamo trascritti di intercettazioni, condanniamo e assolviamo imputati. Noi, piccoli detective dei tempi moderni. Siamo pronti a leggere i fatti, quando però i fatti sono già accaduti. Sono appunto fatti (participio passato). I professionisti sono chiamati a leggere fatti già accaduti che sembrano essere arrivati da un funzionamento psichico quotidiano, costante, a tratti poco equilibrato ma che fino all’atto criminoso non era stato visibile o meglio non era arrivato agli onori della cronaca. Come è possibile allora che ciò accada? Un elemento che non esisteva ieri nella mente alcun individuo, come può essere esploso oggi sotto gli occhi di tutti? È immaginabile che si “impazzisca improvvisamente” tanto da mettere in atto fantasie atroci di vendetta contro qualcuno o di annientamento fisico e definitivo di un essere umano? O forse qualcosa nel passato psichico oltre che nel passato storico di un individuo è rintracciabile? Se non vogliamo ignorare secoli di storia e di evoluzione delle scienze psicologiche dovremmo protendere per la seconda ipotesi, in fondo la più conveniente. Mi spiego meglio. La nostra società sembra riconoscere autorevolmente un peso a criminologi e psichiatri che sappiano spiegare il fatto nefasto già accaduto ma non sembra intenzionata a riconoscere professionalità a chi ai fatti dà uno spessore psicologico proprio mentre le cose accadono, alle volte anche ad insaputa del diretto interessato se i fatti si svolgono in una dimensione inconscia. Questi professionisti, con il proprio bagaglio tecnico, sarebbero in grado di valutare la qualità dei fatti psichici mentre se ne fa esperienza intervenendo, se necessario, per prevenire derive pericolose per sé e per gli altri. E sappiamo bene che “prevenire è meglio che curare”! Proprio forse per la paura che l’essere umano ha di entrare in contatto con alcuni aspetti del proprio essere, con angosce, emozioni piacevoli ma difficili da vivere, fantasie inaccettabilmente aggressive, anche la società in fondo rimuove queste dimensioni dal vissuto di tutti. Così facendo diventa impossibile vederle, poter costruire un pensiero cosciente di questi elementi, salvo poi assistere a una sorta di deflagrazione sporadica attraverso gesti eclatanti e “inspiegabili”, inaccettabili. Uno degli effetti di tale meccanismo di rimozione si concretizza nella possibilità di non dar credito alle scienze psicologiche, non percependone il valore. Infatti gli psicologi nei servizi pubblici sono pochi, gli utenti autocensurano alla propria mente la possibilità di rivolgersi ad uno psicologo per via di una sorta di stigma interno socialmente supportato dal pregiudizio, gli interventi di prevenzione nelle istituzioni risultano pochi e sporadici, gli psicologi figure inesistenti. Il senso comune ci dice che si possono fare barzellette sui carabinieri, forse per esorcizzare la figura superegoica protettiva ma anche giudicante che rappresentano, ma gli psicologi come categoria suscitano anche meno ilarità, solo molta paura. Lo psicologo si occupa di ciò che la società vuole ignorare e quindi non va visto come le cose di cui si occupa. Lo psicologo porta un paio di occhiali che la nostra società non vuole indossare. Eppure quando i giornalisti ci parlano di cronaca nera, io mi chiedo dove era la psiche degli imputati nei giorni precedenti ai fatti, negli anni addietro, quando erano bambini, poi adolescenti e infine adulti. E dove era la società che vedeva crescere queste persone e gli psicologi che forse hanno avuto modo di incrociare anche solo per un attimo questi individui? Nessuno aveva gli occhiali giusti per vedere o chi li aveva poteva solo sussurrare agli altri il racconto timido di ciò che aveva osservato. Certo, la professione che rappresento non risolve tutti i problemi, per alto complessi, della nostra società e dell’essere umano ma da questo discorso sembra emergere un punto fermo: un dato di fatto che il detective moderno non vuole vedere è che anche quelli che uccidono, violentano, si annientano in rapporti sbagliati, investono da ubriachi pedoni alla fermata dell’autobus, torturano animali, abbandonano bambini per strada, “giocano” negli autolavaggi a perforare intestini dell’amico di turno (e qui mi fermo per questioni di spazio), ebbene anche loro hanno una psiche. Detto tra noi, che rimanga un segreto sia chiaro, una psiche, un inconscio lo abbiamo tutti. Nessuno è escluso, neanche gli scettici in materia.
Articolo pubblicato su Lo Sguardo sui Cinque Reali Siti, giugno 2015, anno XIII, n. 4